Cipresso: tra natura e mito

Fin da piccola amo gli alberi. Il loro fusto, i loro rami, il loro mantello di foglie, tutto in essi mi affascina. Mi piacciono le vecchie querce protettive e i festosi abeti natalizi, i mandorli fioriti e i limoni inebrianti, i golosi ciliegi e i suadenti albicocchi… Ci sono quelli che si spogliano e quelli no. D’inverno la nudità dei caducifogli m’infonde tristezza ma all’arrivo della primavera lo spuntare di teneri germogli sui rami disadorni mi rallegra; m’incantano le calde tonalità dei loro vestiti autunnali. Contrariamente ai caducifogli, i sempreverdi non paiono accorgersi dei cambiamenti di temperatura o perlomeno non si fanno condizionare dai cicli stagionali. Imperterriti, rifiutano di svestirsi durante i mesi più freddi; il loro ininterrotto verdeggiare li fa sembrare immortali.

La campagna toscana è punteggiata da due sempreverdi che, insieme alla vite, ne caratterizzano il paesaggio: l’olivo e il cipresso. Dalla spiccata dissomiglianza dei due alberi scaturisce una coinvolgente armonia visiva. Si completano. Nelle colline, la rotondità paffutella verde grigio dell’uno risponde allo slancio emaciato verde scuro dell’altro. Siamo dinanzi a un quadro stupendo realizzato in ambiente naturale per mani dell’uomo.

Condivido la riflessione dell’illustre botanico udinese Giacomini Valerio (1914 – 1981) al riguardo, anche se non cita espressamente la Toscana: “…ovunque si attua questa armoniosa associazione colturale dell’olivo col cipresso – nelle ville vetuste dei colli romani, sulle alture umbre, o intorno al Lago di Garda – si ripete una delle più armoniose combinazioni di forme e di colori che l’uomo abbia saputo realizzare nel nostro paesaggio urbanizzato mediterraneo”.

In Toscana, il Cupressus sempervirens (Cipresso comune) porta il suo generoso contributo all’eleganza delle colline; non a caso viene correntemente designato con l’appellativo “Cipresso toscano”. La sua silhouette a punta di pennello sembra dipingere il cielo. Il più delle volte, la sua chioma appare compatta e filante: è il cosiddetto cipresso maschio (varietà pyramidalis) in opposizione al cipresso femmina (varietà horizontalis) che si contraddistingue con una chioma ovoidale, meno aderente al fusto. Ma questa differenza di forma non corrisponde a una differenza di genere: in botanica, non esistono cipressi maschi e cipressi femmine giacché la pianta è monoica ovvero, produce sia fiori femminili che fiori maschili.

Dalle brattee dell’infiorescenza femminile si sviluppano e maturano, nel corso di due anni, inconfondibili palline legnose e squamati: i galbuli

Il cipresso toscano fa parte delle Cupressaceae, stretta famiglia composta unicamente di conifere. Non è originario della penisola italiana; proviene dall’Asia Minore e dal Mediterraneo orientale. Fu introdotto in Italia in tempi antichissimi dai Fenici o dai Greci, poi diffuso dagli Etruschi. Plinio il Vecchio (I sec. d.C.), rifacendosi a Catone il Censore (234 a.C. – 149 a.C.), ne afferma l’origine orientale: “La patria di questa (pianta) fu Candia, benché Catone la chiami Tarentina, forse perché prima vennono qui”. L’assonanza tra “cipresso” e “Cipro” e il fatto che l’isola di Cipro si collochi giustappunto al confine tra Oriente e Occidente ci inducono a stabilire un rapporto di parentela fra i due termini ma gli specialisti ci fermano: “cipresso” non deriva da “Cipro”; è di etimo oscuro. Il “Cupressus” latino non deriva neppure dal suo corrispondente greco “Kuparissos”: i due vocaboli sorgono in modo indipendente e parallelo da una stessa lingua mediterranea non meglio identificata. Per quanto riguarda la voce latina “Cupressus”, gli etimologi ipotizzano un passaggio intermedio attraverso la lingua etrusca.

PUBLIO OVIDIO NASONE (43 a.C. – 18 d.C.)

Gli antichi greci avevano avvolto il cipresso in una stoffa mitologica: il mito di Kuparissos. Nel Libro Decimo delle Metamorfosi Ovidio ci racconta la tragica vicenda di Ciparisso, l’efebo amato da Apollo. Il bellissimo Kuparissos (Κυπάρισσος) era nato a Cartea (secondo la tradizione, fondata dai Fenici) nell’isola di Ceo (Kέα), una delle isole più fertili delle Cicladi. Nei pressi della sua città viveva un maestoso cervo sacro dalle corna dorate, un animale mansueto e affettuoso. Con lui il ragazzo aveva intessuto un rapporto d’amicizia; ne aveva fatto l’impareggiabile compagno dei suoi giochi e delle sue passeggiate. Un giorno di calura e di luce accecante, mentre riposava all’ombra di alberi in cerca di frescura, il cervo fu colpito a morte dal giavellotto di Ciparisso che cacciava poco lontano. Il ragazzo, vedendo quel che aveva involontariamente combinato, si abbandonò alla disperazione. Invano Apollo tentò di consolarlo. L’adolescente fu inconsolabile e si lasciò morire dal dispiacere. Gli dèi, in risposta alla supplica che aveva rivolto loro, e cioè che gli fosse concesso di esprimere in eterno il suo dolore per l’amico morto, lo trasformarono in una pianta longeva ad andamento colonnare che s’innalza verso il cielo come una fiamma continuamente accesa. A mo’ di conclusione Ovidio mette in bocca ad Apollo una mesta considerazione: “Lugebere nobis/ lugebisque alios aderisque dolentibus” (Da noi sarai pianto e tu, accanto a chi soffre, piangerai gli altri). Così, Ciparisso, diventato cipresso, si unisce a chi piange la perdita di una persona cara.

Nell’antichità greca il kuparissos era associato a Hades (Άιδης), sovrano dell’aldilà e fratello di Zeus. Successivamente, nel mondo romano, il cupressus era sacro a Plutone, dio degli inferi. In Occidente, il cipresso viene usato da pittori e letterati per evocare la morte e il lutto; è l’albero del pianto, l’albero dei defunti per antonomasia. La sua ostinata presenza nei cimiteri, in parte condizionata dal mito di Ciparisso, è anche legata a una sua peculiarità strutturale: le sue radici, invece di espandersi in orizzontale, scendono in profondità nel terreno come un fuso. Quindi, Il suo ancoraggio prevalentemente verticale non danneggia le sepolture. 

                                                                                Joëlle

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