Tristizia

Boccaccio scriveva : “Sono due maniere di tristizia: o l’uomo s’attrista percioché egli non può a’ suoi dannosi desideri pervenire; o l’uomo s’attrista cognoscendo che egli ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse.” Ci rende tristi non riuscire a soddisfare i nostri desideri; ci rende tristi riconoscere di aver commessi errori nel passato. Aggiungerei: ci rende tristi non aver colte al volo delle opportunità di crescita  che si presentavano sul nostro cammino; ci rende tristi pensare a esseri cari spariti per sempre dalla realtà fisica o semplicemente lontani da noi.

Un rabbino triste (agli Uffizi di Firenze)

 Firmato da Rembrandt e datato 1665, il dipinto rappresenta un uomo anziano assorto. Gli occhi infossati persi nel vuoto e le dita intrecciate in un gesto di pacato raccoglimento indicano un pensiero profondo. È seduto. Mentre l’avanbraccio destro è accostato a un tavolo dove scorgiamo un libro aperto, quello sinistro ripone sul bracciolo della poltrona. I lembi del mantello disegnano i lati di un triangolo il cui vertice è coronato da una folta barba bianca riccioluta. Il labbro superiore si nasconde sotto baffi canuti. I capelli scuri e il copricapo si mimetizzano con il fondo nero che avvolge il personaggio, mettendo in risalto la fronte chiara leggermente corrugata. Sorprendiamo un momento d’intimità dell’uomo con sé stesso, un istante di acuta riflessione. Il suo viso è velato di malinconia. Chi è costui? A cosa pensa?

 

Alcuni ipotizzano che sia il ritratto del rabbino Haham Saul Levy Morteira. Anche se Rembrandt visse a lungo nel quartiere ebraico di Amsterdam dove risiedeva il rabbi, l’identificazione non è certificata da nessun documento. Mi piace credere che si tratti davvero del rabbino Morteira d’origine portoghese, maestro di Baruch Spinoza. Vorrei che la sua riflessione fosse diretta al suo brillante allievo e che rimpiangesse di averlo duramente bandito dalla comunità in accordo con il consiglio degli anziani e gli altri rabbini. Ecco, con quali  termini taglienti è stata lanciata la spietata scomunica della sinagoga di Amsterdam contro Baruch Spinoza, il 27 luglio 1656: “Noi escludiamo, cacciamo, malediciamo ed esecriamo Baruch de Spinoza con il consenso  di tutta la santa comunità, in presenza dei nostri libri sacri  e dei seicentotredici precetti in essi racchiusi… Che sia maledetto di giorno, che sia maledetto di notte; che egli sia maledetto durante il sonno e durante la veglia, che sia maledetto quando entra e che sia maledetto quando esce. Voglia l’Eterno accendere contro quest’uomo tutta la Sua collera e riversare su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge… Sappiate che non dovete avere con lui (Spinoza) alcuna relazione né scritta né verbale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno l’avvicini a meno di quattro cubiti. Che nessuno viva sotto lo stesso tetto con lui e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.”

 

Un papa triste (nella National Gallery di Londra) 

Dopo un salto diacronico di un secolo e mezzo a ritroso, mi soffermo davanti al dipinto di papa Giulio II eseguito da Raffaello nel 1511.  Ebbene sì! Associare i due ritratti mi è venuto spontaneo. Nonostante facciano parte di periodi storici distinti e siano frutti di tecniche pittoriche diverse, illustrano un medesimo stato d’animo: la mestizia. Il terribile Giuliano della Rovere si fa rappresentare abbacchiato, lo sguardo assente, il fazzoletto in mano pronto ad asciugare una lacrima. Giunto alla fase ultima della sua esistenza, traccia il bilancio del suo operato. Rimpiange forse di aver dovuto maneggiare la spada per salvaguardare la Chiesa, per sottrarre i territori pontifici dagli artigli di sovrani avidi. Non desidera offrire l’immagine di un papa guerriero  o di un condottiero collerico. Preferirebbe essere ricordato come un mecenate arguto e un intellettuale di ampie vedute: attraverso La Scuola di Atene non ha forse voluto affermare, seppure in modo criptico, che la dottrina cristiana ha estratto la sua linfa dal pensiero filosofico greco?

 

Il rabbi di Amsterdam e il papa francescano di Albisola si mostrano pubblicamente in preda allo sconforto. Non vogliono nasconderlo. Anzi, scelgono di mettere in evidenza le loro insicurezze, la loro debolezza. Perché?

Ormai siamo abituati a usare il sostantivo “eroe” per indicare uomini impavidi, uomini di successo che non conoscono né l’indugio né il crollo. Eppure gli eroi greci, oί ήρωί, a metà strada fra umano e divino, autori di imprese gloriose, cedono alla tristezza e al pianto. Prima di imbarcarsi sulla nave Argo, Giasone appare triste e pensieroso. Nel libro VIII dell’Odissea, Ulisse piange durante il banchetto del re Alcinoo. All’inizio dell’Iliade, Achille, dopo il diverbio con Agamennone, se ne va a piangere in riva al mare da sua madre Teti.

Ammettere di aver fallito, di essersi sbagliati, di essere vulnerabili sono dichiarazioni di grande forza e non di debolezza come potrebbe sembrare.

 

Un pittore triste (al Rijksmuseum di Amsterdam)

 Il dipinto porta la data 1661. All’età di 55 anni, Rembrandt si ritrae nei panni dell’apostolo Paolo di Tarso. In effetti, il titolo dell’opera è: Autoritratto come San Paolo.

Il maestro si dipinge con le lettere paoline in mano. Una spada quasi occultata fa emergere la sua impugnatura da sotto il drappo scuro della veste. La luce colpendo il viso in diagonale lascia metà della faccia nella penombra. L’espressione mischia  dolcezza e sgomento; una profonda tristezza appanna gli occhi che ci fissano come due punti interrogativi.   

Scavare dentro di sé tramite una rappresentazione pittorica. Dipingersi per carpire la propria intimità senza compiacimento né autocommiserazione. Durante i quarantaquattro anni della sua attività pitturale, Rembrandt ha realizzato un centinaio di autoritratti. Come mai in questo ultimo periodo della sua vita si è indentificato a San Paolo? Quale risposta o consolazione ha trovato nelle lettere dell’apostolo?

 

Per Rembrandt, tutto procede a gonfie vele fino al 1642. A diciannove anni, quando apre un atelier a Leida, il successo non si fa aspettare; la fortuna gli arride. Il segretario del principe di Orange è colpito dal suo talento e gli commissiona un ciclo di dipinti della Passione. In poco tempo il giovane pittore s’impone come migliore ritrattista della società borghese locale. Nel 1632 si trasferisce ad Amsterdam e viene ospitato dal ricco mercante d’arte Hendrick Uylenburgh. Nel 1634 sposa Saskia, cugina del mercante e lo stesso anno s’iscrive alla Gilda di San Luca. Il suo matrimonio è felice; i suoi allievi numerosissimi; la sua maniera attrae facoltosi committenti. Nel 1639 acquista una casa sul Sint Anthoniesbreestraat ad Amsterdam. Nel 1641 nasce Titus, suo figlio.

Poi si accaniscono le avversità. Nel 1642 muore l’amatissima Saskia, falciata dalla tubercolosa e  si ritrova solo con il suo bimbo di pochi mesi. Nel 1649 la balia Geertghe Dircx, spodestata dalla giovane Hendrickje Stoffels, lo denuncia accusandolo di aver rotto una presunta promessa di matrimonio. La società borghese olandese, scandalizzata dal suo concubinaggio con Hendrickje, si discosta e nel 1654 si allontana ancora di più quando la sua compagna gli dà una figlia, Cornelia. I debiti e le difficoltà finanziarie lo costringono a dichiarare fallimento nel 1656. Invano tenta di intestare la casa a suo figlio. Tra 1657 e 1658 i suoi beni sono venduti all’asta. Il pittore si trasferisce in una nuova casa nel Rozengracht insieme ai suoi familiari. Nel 1660 stipula con Titus e Hendrickje un contratto in cui s’impegna a lavorare solo per loro in cambio di vitto e alloggio.

Queste informazioni esplicitano la scivolata del talentuoso maestro dalle stelle alle stalle, dalla gloria alla rovina. Così, percorrendo alcune tappe importanti della sua vita, siamo giunti all’anno di realizzazione dell’Autoritratto come San Paolo.

Alla luce dei dati biografici, s’intuisce il motivo per cui Rembrandt abbia scelto di rappresentarsi come “l’apostolo delle genti”.

La spada di Paolo non rappresenta l’arma con la quale, si dice, egli fu decapitato a Roma durante le persecuzioni neroniane. La sua spada simboleggia la “Parola di Dio” com’è scritto nella Lettera agli Ebrei 4, 12: “La parola di Dio, infatti, è viva ed efficace e più affilata di qualunque spada a due tagli, essa penetra fino a dividere anima e spirito, giunture e midollo, e a distinguere i sentimenti e i pensieri del cuore”. La spada a doppio taglio consente all’uomo di distinguere il bene e il male. Rembrandt non la tiene in mano come vorrebbe l’iconografia tradizionale del santo. Nel suo autoritratto raffigura la spada  in una posizione insolita: sembra che gli trafigga il petto. Forse, una maniera di tradurre la sua sofferenza psicologica attraverso un’immagine concreta forte. Probabilmente da mettere in parallele con “la scheggia nel corpo”, non ben definita da Paulo, ma evocata nella sua Seconda Lettera ai Corinti 12,7-10: Anzi affinché la grandezza delle rivelazioni non mi facesse insuperbire, mi è stata messa nella carne una spina, un angelo di Satana, per schiaffeggiarmi, perché non m’insuperbisca. Tre volte riguardo a questo, pregai il Signore, perché lo allontanasse da me, ma egli mi ha risposto: “Ti basti la mia grazia, perché la potenza trionfa nella debolezza”. Ben volentieri adunque io preferisco gloriarmi delle mie debolezze, affinché abiti in me la potenza di Cristo. Per questo io mi compiaccio delle mie infermità, degli oltraggi, delle necessità, delle persecuzioni e delle angustie per colpa di Cristo, perché quando son debole è allora che sono potente. Le confessioni di Paolo si fanno balsamo per l’anima tormentata di Rembrandt,  gli vengono in aiuto  per affrontare le tribolazioni della sua esistenza

Sono forti i perdenti… Il mio pensiero vola da Paolo a Spinoza, da Spinoza a Rembrandt. L’apostolo si è dedicato senza sosta alla diffusione del messaggio di Cristo ed è morto convinto di non essere riuscito nel suo intento. Spinoza, dopo essere stato escluso dalla sua comunità, ha perseverato nello scrivere la sua filosofia “eretica” senza la speranza di essere mai ascoltato e stimato. Rembrandt ha conosciuto il successo e la ricchezza poi è caduto in disgrazia, accantonato e quasi dimenticato, ma non ha mai cessato di creare con uno stile tutto suo fino all’ultimo, rifiutando di aderire ai nuovi modi di dipingere. Il cristianesimo si è diffuso, Spinoza è fra i più grandi filosofi e Rembrandt è considerato un mago della pittura. Gli eroici falliti sono diventati vincitori.

 

La luce di un sorriso esprime spensieratezza e trasmette leggerezza. La cupezza di due occhi segna  la nostalgia o la sofferenza. Siamo entrambi luce e ombra, letizia e tristizia. Non facciamoci ingannare dagli illusori eroi moderni perfetti, smaglianti e senza paura! Lasciamo perdere i “supereroi” dei film di fantascienza e dei cartoni animati! Pensiamo invece agli eroi classici che, in mezzo a gioia e dolore, non nascondono la loro fragilità. Il vero eroismo non è arrivare in testa alle classifiche, aver successo a tutti i costi, superare gli altri. Il vero eroismo è dare appuntamento al nostro essere per capire quali sono i nostri doni e impegnarci a svilupparli con tenacia. Il vero eroismo consiste nel non tradire le nostre aspirazioni, nel rimanere il più possibile coerenti con il nostro io. Non siamo perfetti, solamente perfettibili e la vulnerabilità, l’insicurezza, la precarietà che ci caratterizzano, sono parti della nostra bellezza. Riconoscere i propri sbagli, i propri limiti è un passo obbligato per crescere. Il vero eroismo non è correre dietro all’immagine ideale, patinata e ben architettata che vorremmo dare di noi ma è vivere pienamente ciò che sentiamo di essere.

                                                                                                    Joëlle

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