Torvo…il corvo? Parte 5

UCCELLO VENERATO

Escludendo la punta meridionale del Sudamerica e le calotte polari, possiamo dire che i corvidi hanno colonizzato l’intero pianeta. Sono inseriti in numerosi miti nei quali si muovono con tutti gli onori.

Per il popolo inuit, originario della Siberia orientale e giunto attraverso la Beringia (ponte di terra dello stretto di Bering) in Alaska, Canada e Groenlandia, il corvo è in diretto rapporto con la luce.

Nel mito della creazione si succedono due corvi (Tulugaq): il corvo-Padre e il corvo-Figlio. La prima fase inizia con la nascita dell’uomo e narra della sua educazione e del suo sviluppo. L’essere umano nasce dal baccello di un’enorme pianta di pisello cresciuta su una spiaggia. Cammina a lungo cercando di capire chi è finché non s’imbatte in un corvo imperiale. Ovvio, non è un corvide qualsiasi; è dotato di uno straordinario potere: quando spinge il becco all’insù e lo sposta dietro alla testa come fosse una maschera, diventa uomo; quando esegue il movimento inverso torna ad essere corvo. Si prende subito cura del nuovo arrivato che, da un lato, gli somiglia: spicca il volo e torna con delle bacche per sfamarlo. Poi, dopo aver spostato il becco all’indietro, comincia a plasmare l’argilla. Crea così una strabiliante fauna sia terrestre che marina: sotto le sue mani appaiono renna, orso, castoro, volpe, pesci, foca, tricheco, ecc. Avendo ripreso l’aspetto di volatile, comincia a battere freneticamente le ali sopra le sue sculture perché si animino. Con dedizione, spiega all’essere umano i tratti caratteristici di ogni animale e gli insegna i vari metodi di caccia. Dal baccello escono fuori altri tre uomini. Prima di allontanarli in direzioni diverse, il corvo trasmette pure a loro le tecniche indispensabili alla sopravvivenza e modella per ognuno una donna che li accompagnerà durante il viaggio. Successivamente, s’installa nel cielo e costruisce il “Mondo Superiore” che fa visitare al primo essere generato dalla pianta di pisello; in seguito, lo porta con sé a scoprire la zona più profonda del mare sorvegliata dal guardiano delle creature marine. Quando riemergono qualche anno dopo, e fanno insieme ritorno sulla Terra, il corvo si spaventa di fronte alla crescita smisurata della popolazione umana: ha paura di vedere gli uomini uccidere tutti gli animali. Crea allora dei caribù giganti dai denti aguzzi, divoratori di bipedi. Convinto dell’insufficienza di questa misura, adotta un ulteriore e vigoroso provvedimento: stacca il Sole e lo nasconde a casa sua. La completa oscurità impedirà agli uomini di cacciare. Se questo non li farà sparire del tutto, costituirà almeno una decisiva battuta d’arresto alla loro invasione. Il ragionamento non fa una grinza; la soluzione è radicale. Potrebbe essere l’epilogo se il corvo non avesse un fratello e una moglie, fertile substrato dove attecchisce la seconda fase del mito. In effetti, il fratello si tramuta in una piccola foglia che casca nella bevanda della moglie e la feconda. Da questa ingestione nasce un corvo-Figlio, sotto forma di bambino. Il piccolo piagnucola di continuo per ottenere il permesso di giocare con il Sole; stancato da questo gnaulare, il corvo-Padre finisce per cedere alla richiesta del figlio. Di soppiatto, il pargolo-corvo esce di casa con la sua palla di luce: nel cielo, il sole brilla di nuovo e l’umanità è salva.

In un altro racconto, la comparsa del giorno risale all’intervento di un corvo. Quando il mondo giaceva ancora in un buio pesto, l’uccello sollecitò con il suo grido l’arrivo della luce “Quau” al fine di agevolare la propria ricerca di cibo. Una volpe si mise di mezzo richiamando a gran voce l’oscurità “Taaq” grazie alla quale poteva rubare cibarie in tutta impunità. Ma guarda te! La rivalità volpe-corvo ha delle radici che superano i confini del continente europeo. Dalla continua mescolanza tra luce e oscurità, nascono le notti chiare della primavera e i giorni oscuri dell’inverno.

Gli Inuit, oggi per la maggior parte cristianizzati, hanno alle spalle un retroterra animistico. Le loro credenze non si sono sviluppate secondo una trama di tipo greco in cui le divinità antropomorfe si scontrano e incidono sulla vita dei mortali. Il loro mondo era popolato da spiriti “anirniq” coi quali solo lo sciamano, in uno stato di estasi, poteva entrare in contatto. Quando, al ritmo del tamburo, l’Angakuq raggiungeva l’apice della trance, perdeva la propria identità e si lasciava possedere dagli spiriti della Natura o degli antenati diventando la loro cassa di risonanza o, meglio ancora, il loro portaparola. Le predizioni e gli avvertimenti, che sgorgavano da quest’osmosi spirituale, servivano a guidare lo svolgimento della caccia o di altre importanti attività della comunità. Tutti seguivano i consigli dello sciamano, lo consultavano per risolvere i problemi e si affidavano ai suoi poteri di guaritore. Piccola ma doverosa precisazione: l’Angakuq non era necessariamente di sesso maschile; esistevano sciamani donne.

Invece, i popoli norreni, ossia i popoli germanici della Scandinavia, erano politeisti prima di diventare cristiani. Degli innumerevoli racconti pagani che si trasmettevano di bocca a orecchio, generazione dopo generazione, molti non furono scritti. Si salvarono quelli che un erudito islandese sistemò con impegno nell’alto Medioevo.

In effetti, dal 1222 al 1225, il poeta e politico Snorrí Sturluson (1179 – 1241) compose l’Edda in prosa o Snorra Edda dove narra con indiscutibile talento le vicende intricate degli dèi nordici. L’opera si apre con un prologo “Formáli” e si suddivide in tre parti: l’Inganno di Gylfi “Gylfaginning; il Discorso sull’arte scaldica “Skáldskaparmál; il Catalogo dei metri “Háttatal. La scrisse in norreno, antenato delle lingue scandinave moderne. All’inizio, il suo obiettivo era di compilare esclusivamente un manuale d’arte poetica, d’arte scaldica; lo scaldo (skáld, in norreno) era il poeta e cantore di professione. Però, dopo riflessione, ritenne di doverlo arricchire con una raccolta di miti scandinavi giacché essi costituivano il bagaglio culturale indispensabile per chi ambiva a diventare poeta. Oggi, parte della critica gli imputa di aver spesso e volentieri aggiustato le storie che voleva tramandare. Mettiamo subito in chiaro un fatto importante: nell’anno Mille, i missionari erano approdati nell’isola sperduta dell’Atlantico settentrionale, ultimo territorio europeo a ignorare il cristianesimo. A decorrere dal XI secolo, i monasteri avevano iniziato a segnare della loro presenza il paesaggio islandese. Quindi, all’epoca di Snorri, tutta l’Islanda era cristiana. Così, durante la sua formazione intellettuale a Oddi nel sud-ovest dell’isola, oltre a studiare i vecchi carmi e la narrativa delle saghe legati alla sua terra, egli ebbe fra le mani manoscritti cristiani. Per redigere la parte dell’Edda dedicata ai miti, il Gylfaginning, attinse alle fonti antiche cioè alle vecchie pergamene dove cosmogonia, vicende eroiche e divine sono raccontate in modo ermetico e presentano delle lacune. Nella sua ricomposizione, non è da escludere che, oltre a colmare i vuoti, egli abbia adattato alcuni frammenti per armonizzarli con la religione monoteista. Comunque dobbiamo perdonare a Snorri le sue licenze letterarie dato che ha avuto il merito di esplicitare passaggi oscuri della narrativa scandinava arcaica. Senza il suo intervento, gran parte della mitologia nordica sarebbe indecifrabile.

In cima al brulicante panteon nordico troneggia Odino (Odhinn), l’onnipotente. È monocolo ma l’occhio, non l’ha perso nel corso di una battaglia; se lo è strappato volontariamente. Ordunque, pazzo furioso? Direi piuttosto: eroico furore. Il suo, è stato un gesto estremo guidato dalla bramosia di ottenere l’onniscienza. Si è deturpato davanti al Mímisbrunnr, la sorgente dell’eterna saggezza custodita dal guardiano Mímir. Ha sacrificato un occhio e lo ha lanciato nella fonte. Era il pesante tributo impostogli dal custode per attingere alla bevanda della sapienza che permette di capire il passato, il presente e il futuro. Odino è il gran Saggio. Mediante un terribile rito iniziatico, diventa anche Signore delle rune (da rún: segreto). Dopo che si era trafitto il costato con una lancia e impiccato per nove giorni e nove notti al frassino Yggdrasill, senza mangiare né bere, gli sono state rivelate le 24 lettere dell’alfabeto runico. Agli uomini ha divulgato la sua scoperta. Un dono prezioso e magico. La potenza di questi segni spigolosi non si esaurisce nel dare un nome alle cose; le rune corrispondono a delle vibrazioni cosmiche, riassumono i principi basilari dell’universo e sono elementi insostituibili nelle pratiche divinatorie. Odino è il Mago per eccellenza. Dopo aver rubato l’idromele dell’arte poetica ai Giganti, acerrimi nemici degli dèi, diventa il massimo Poeta e il protettore degli scaldi e degli artisti. 

E siccome non si fa mancare niente, è anche il  dio della guerra e il patrono degli eroi vivi e morti. Freki l’avido e Geri il divoratore, i due lupi che lo seguono ovunque, rappresentano il suo lato guerresco mentre la sua parte intellettuale, poetica e magica si concretizza nei due corvi che lo accompagnano: Huginn, il pensiero e Muninn, la memoria.  “Due corvi stanno sulle sue spalle e nell’orecchio gli raccontano tutte le cose che vedono o odono; essi si chiamano così: Huginn e Muninn. All’alba egli li manda a volare intorno al mondo ed essi fanno ritorno all’ora del pasto, così egli è al corrente di molte cose. Perciò gli uomini lo chiamano Dio-corvo, così come qui è detto…” Apriamo uno spiraglio e lasciamo che il gelido vento del nord ci porti queste righe scritte, se non più nel norreno di Snorri, perlomeno nella lingua scandinava moderna che più gli è rimasta vicina, cioè, l’islandese: “Hrafnar tveir sitja á öxlum honum ok segja í eyru honum öll tiðindi þau er þeir sjá eða heyra, þeir heita svá: Huginn ok Muninn. Þá sendir hann í dagan at fljúga um allan heim ok koma þeir apter at dogurðarmáli. Þar af verðr hann margra tíðinda viss. Því kalla menn hann Hrafnaguð, svá sem sagt er…”

Gli antichi scandinavi consideravano il corvo, l’animale di Odino per antonomasia. Ecco chiarita la sua frequente raffigurazione sui caschi di bronzo, sugli scudi, le spade e le corazze. Ecco delucidata la sua presenza sugli stendardi, sulle vele o sulla prua delle navi; ecco spiegato il ritrovamento del suo cranio insieme allo scheletro di un capo vichingo, all’interno della stessa tomba. Prima di una battaglia, consumare la sua carne o bere il suo sangue predisponeva alla vittoria. Era l’uccello tutelare dei guerrieri vivi e lo psicopompo dei caduti che guidava nell’aldilà.

I Greci e i Romani ammiravano il corvo per la sua abilità cognitiva. All’inizio del primo millennio, abbiamo colto in proposito la testimonianza di Plinio il Vecchio. Già sette secoli addietro, ne La cornacchia e la brocca, Esopo (VII - VI sec a. C.) aveva messo in luce la sorprendente capacità dei corvi di risolvere i problemi. Certo, il suo intento era pedagogico: voleva spronare a non arrendersi davanti alle difficoltà, insegnare che molti ostacoli sono superabili con la costanza e l’ingegno. Ma, per l’appunto, la sua favola registra un comportamento della cornacchia, oggi attestato in laboratorio dagli etologi.

Una cornacchia, mezza morta di sete, trovò una brocca che una volta era stata piena d’acqua. Quando, però, ci infilò il becco, si accorse che vi era rimasto soltanto un po’ d’acqua sul fondo. Provò e riprovò, ma inutilmente e alla fine fu presa dalla disperazione. Le venne un’idea e, preso un sasso, lo gettò nella brocca. Poi prese un altro sasso e lo gettò nella brocca. Ne prese un altro e gettò anche questo nella brocca. Piano piano vedeva l’acqua salire verso di sé, e dopo aver gettato altri sassi, riuscì a bere e a salvare la sua vita. Quindi, se l’intelligenza del corvo era indubbia, per quale motivo Esopo la nega in un testo ormai universalmente conosciuto?

Dopo aver rubato un pezzo di carne, un corvo era andato a posarsi su un albero. La volpe lo vide e le venne voglia di quella carne. Si fermò sotto l’albero e incominciò a lodare il corvo, facendogli complimenti per il suo corpo perfetto e la lucentezza delle sue penne, aggiungendo che nessuno era più adatto di lui a diventare il re degli uccelli, e che lo sarebbe stato di sicuro se avesse avuto la voce. Allora il corvo volendo dimostrare che nemmeno la voce gli mancava, si mise a gracchiare il più forte che poté e lasciò cadere la carne. La volpe l’afferrò prontamente e soggiunse con tono beffardo: “Se, poi, caro il mio corvo, tu avessi anche il cervello, non ti mancherebbe altro per diventare re.

Nel primo secolo dopo Cristo, Fedro usa versi senari (formati da sei sillabe) per trascrivere Il corvo e la volpe in uno stile sobrio ma elegante. Il suo racconto inizia con una piccola modifica “Il corvo aveva rubato da una finestra un pezzo di formaggio”; con questa variante, la storia dei due protagonisti attraversa l’età medievale, poi l’età moderna per giungere finalmente a noi. Curioso il passaggio dalla carne al formaggio. La volpe ha una dieta prevalentemente carnea e quindi, la scelta di Esopo si adeguava alla realtà biologica. Perché questa sostituzione? Fedro era per caso vegetariano? Gli piaceva il formaggio? Oppure, introdurre il “caseus” fra due animali era alludere con un elemento concreto alla società degli uomini giacché il formaggio è prodotto dall’attività umana? Non ci è dato saperlo. Interrompo qui le mie elucubrazioni.

Cerchiamo piuttosto una risposta al quesito precedente: Perché aver ridicolizzato il corvo? Michel Pastoureau, storico e antropologo francese, suggerisce il meccanismo della “soupape”, della valvola. Proviamo a capire. La sagacia del corvo suscitava interrogativi che, per un verso, disturbavano: Era mai possibile che un animale fosse così perspicace? Da dove proveniva la sua arguzia? Ridicolizzarlo permetteva di rassicurarsi: in fine dei conti, non era poi tanto intelligente; era persino stolto! Dal XIV secolo circolava comunque una versione della favola in cui il corvo lasciava cadere il formaggio perché sapeva che era avvelenato…

Anche nel mito greco di Coronide interviene il meccanismo della cosiddetta valvola: il corvo viene ridicolizzato. In greco antico “Koroné – Κορώνη” indica sia il corvo che la cornacchia. “Coronide" significa “Vergine Cornacchia”. Ehm! Vergine … si fa per dire visto che la bella fanciulla è incinta di Apollo. Sventurata fanciulla che si concede a un giovane straniero di cui si è innamorata. Apollo impara la notizia dal suo corvo; impietoso e inferocito, vendica il tradimento uccidendo Coronide. Che barbarie! Meno male, i tempi sono cambiati … o no? Il bambino, salvato da suo padre in extremis, è affidato alle cure del Centauro Chirone che gli insegnerà l’arte medica: diventerà Asclepio, un maestro in grado di operare guarigioni prodigiose. Valutiamo il fatto che il primo medico nasce da una mamma Cornacchia. Quanto al fedele corvo, riceve un’inaspettata ricompensa da parte del dio che ha servito: Apollo cambia il colore del suo piumaggio e da bianco che era…ma andiamo a scoprirlo con i versi di Ovidio (43 a.C. – 18 d.C.) nel Libro secondo delle Metamorfosi:

534  quam tu nuper eras, cum candidus ante fuisses,

         corve loquax, subito nigrantes versus in alas.

         Nam fuit haec quondam niveis argentea pennis

         Ales, ut aequaret totas sine labe columbas

         Nec servaturis vigili Capitolia voce

         Cederet anseribus nec amanti flumina cygno.

         Lingua fuit damno: lingua faciente loquaci,

541  qui color albus erat, nunc est contrarius albo.

“come da poco, o corvo loquace, il tuo piumaggio all’improvviso è divenuto nero da bianco che era. Invero, questo uccello era candido per le sue penne nivee, tanto da eguagliare ogni colomba senza macchia e da non essere da meno delle oche destinate a salvare il Campidoglio con i loro schiamazzi notturni o dei cigni amanti dei fiumi. Gli arrecò danno la lingua: a causa di quanto commesso con la sua loquacità, quel colore bianco di un tempo ora è divenuto il contrario del bianco.”

Apollo infligge al suo corvo un’umiliazione indelebile che, a pensarci bene, è l’unica nota risibile nel cuore di una vicenda drammatica. Ridiamo del corvo il cui zelo servile è stato ripagato con una punizione ingiusta. Benché sia l’animale della cerchia divina più gradito al luminoso Apollo, qui recita la parte ingloriosa dello sbeffeggiato. Si tratta di un leggero ridimensionamento, non di una condanna perché rimane comunque a far parte del seguito di Apollo; il dio non lo espelle affatto dal suo mondo. Ci penserà il cristianesimo a buttarlo giù, a trasformarlo in un uccello maledetto, portatore di sciagura, di pestilenza e di morte. Sarà il cristianesimo a schiacciare la sua immagine di animale saggio, consigliere degli dèi. In Occidente, durante il medioevo, viene associato al diavolo e alle streghe, e ancora oggi pare sia difficile staccare il marchio di profonda negatività che da secoli gli è stato appiccicato.   Continua…

                                                      Joëlle

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